Lavoro e visione sociale del benessere
L’ attenzione crescente che da qualche tempo viene riservata alla qualità del contesto lavorativo, inteso come habitat nel quale un soggetto spende una considerevole parte del proprio tempo, ci dà la misura di come l’interesse rivolto alle problematiche relative al lavoro si stia evolvendo. Un’evoluzione perfettamente in linea con le nuove dinamiche della sostenibilità del benessere e più in generale con una visione sociale del tema. Quando parliamo di una visione sociale del benessere, stiamo pensando ad un dimensione che tende, in qualche modo, a subordinare tutte le scelte strategiche della società al rispetto degli individui. In tal senso emerge dunque la necessità di interpretare e pensare al lavoro non solo in termini di inclusione occupazionale, ma piuttosto in una prospettiva legata al concetto di benessere nella quale è essenziale dare alla propria “collocazione lavorativa” la giusta considerazione.
Per “collocazione” non parliamo certo di un ruolo o una posizione nella piramide aziendale, bensì della condizione personale nella quale un soggetto si trova a svolgere le sue mansioni lavorative. Per dirla in altri termini, diventa rilevante l’approccio psicologico al proprio lavoro: ovvero come si viene percepiti dai colleghi, come ci si sente nel proprio contesto lavorativo. Stiamo parlando di una dimensione del lavoratore che si manifesta nella gratificazione personale, talvolta considerata marginale e quindi totalmente eclissata da altre giuste quanto ovvie questioni. In primis il salario. Si è soliti pensare che la sola soddisfazione di uno che si alza ogni giorno al mattino per raggiungere il proprio posto di lavoro si concretizzi, sempre, in un maggior guadagno. La retribuzione, il salario, sono elementi fondanti il concetto di lavoro ed in quanto tali assolutamente inalienabili. Ma chi ci dice che talvolta guadagnare di più sia sufficiente? Di certo le ultime riflessioni sul tema lavoro possono condurci verso un sentiero impervio, nel quale il guadagno ha una valenza notevole ma, se si fa riferimento alla possibilità di sentirsi totalmente appagati, è chiaro che il solo danaro diventa insufficiente. E non stiamo parlando di quei casi, piuttosto frequenti, in cui non ci si sente valorizzati o, peggio, si lavora effettivamente più di quanto si guadagna. Certo sarebbe auspicabile avere più spazio per se stessi, giacché una quantità soddisfacente di tempo libero è necessaria per la salute psicofisica di un individuo. Parliamo di chi vive di un lavoro alienante, di chi non riceve la giusta e legittima considerazione, di chi quotidianamente si allontana un po’ di più dalla serenità, allungando la distanza fra se stesso ed il suo benessere. È indubbio che la quantità e la qualità del tempo libero assumano una connotazione decisamente personale, ognuno nei limiti del possibile decide i suoi tempi organizzativi: ci sono quelli che trascorrono, ed amano trascorrere i weekend rintanati in ufficio, oppure a casa propria fortemente motivati a lavorare. Beh, come si dice: de gustibus non disputandum est. Esiste chi fa del lavoro la propria ragione di vita, chi fa del lavoro principalmente un modo onesto per far soldi, chi si identifica nel proprio lavoro perché lo ha scelto e chi, quotidianamente, viene schiacciato, umiliato nella propria individualità e va a lavorare come se andasse al patibolo. E sono in tanti! Una escalation di frustrati in parte vittime di una società che, come abbiamo già detto non ne riconosce il merito o, soltanto la disponibilità. Pertanto essenziale, al fine di raggiungere un benessere sostenibile, è lavorare in un contesto sano, nel quale la propria professionalità venga riconosciuta in termini di competenza. Dunque, un contesto lavorativo salubre, produttivo, nel quale vengano rispettati non soltanto i diritti primari (salario e tempo libero), ma anche l’identità del lavoratore, rappresenta il giusto compromesso per soddisfare a pieno il sacrosanto diritto al lavoro. Quanto detto sinora potrebbe apparire di contorno alla grande emergenza lavoro che incombe oggi sull’Italia. L’occupazione è un argomento, purtroppo, alla ribalta delle cronache; oggetto di quotidiana discussione da parte di chi governa ma non solo. Tutti straparlano di questa grande piaga sociale che è la disoccupazione. Ma in pochi raccontano di chi uno pseudo lavoro ce l’ha, eppure non è felice, perché il prezzo per tenerselo è troppo alto. E allora ogni mese a monte di un guadagno c’è sempre una piccola grande perdita di qualcos’altro che comincia con le parole non dette, e finisce nella totale mancanza di rispetto per se stessi. Qualche volta ci si deve umiliare, qualche altra si finisce in un circolo vizioso di invidie ed ostilità. E allora vogliamo essere impopolari quando in casi come questi diciamo “a non avercelo un lavoro”, perché di fatto la salute non si compra, non c’è prezzo per il proprio benessere. D’altra parte chi ha difficoltà con i beni primari non sarà di questo avviso, eppure è nostra opinione pensare che vivere di un lavoro che talvolta degrada, prima o poi impoverisce ugualmente. A tal proposito sarebbe auspicabile porre al centro del dibattito sociale il tema lavoro in tutte le sue dimensioni affinché questo diritto inalienabile dell’uomo venga rinsaldato nel cuore del sistema società.